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Intervista ad un omosessuale confinato alle Isole Tremiti nel periodo fascista

Giuseppe B., 74 anni (nel 1987), abitante a Salerno, soprannominato affettuosamente “Peppinella” m’accoglie con queste parole, un po’ sorpreso che dopo tanti anni qualcuno voglia parlare delle sue disavventure di omosessuale perseguitato dal fascismo.
Fu nel lontano 1939, infatti, che un tribunale fascista lo condannò per “delitti contro la razza” a cinque anni di soggiorno obbligato presso l’isola di S. Domino Tremiti.
Giuseppe B. è un anziano signore vestito in modo molto sobrio, con l’eccezione di un vivace foulard attorno al collo. Nella casa aleggia una “classica” atmosfera di “affetti familiari” (le vecchie fotografie, gli oggetti dei nipotini che vengono a trovarlo quasi ogni giorno…) in cui non può non stonare il soffitto “terremotato”, contro cui sono stato messo in guardia, rabberciato con grossi pezzi di carta.

In questa piccola oasi di tranquillità familiare l’arrivo d'”o jornalista” a parlare di vecchi scandali non sembra essere benvenuto.
Dopo laboriose trattative (i ragazzi dell’Arcigay di Salerno si sono ahimè improvvisati “storici” ed hanno combinato un pasticcio, andando a intervistarlo con un registratore nascosto e facendosi pure smascherare!), mi viene infine concessa mezz’ora di tempo, a patto di non registrare la conversazione (“tenete ‘a maghineta? Fatemi vedere dint”e ccarte”) e di non scattare fotografie.
Accetto, e dopo pochi minuti Giuseppe B. s’è già lasciato andare ai ricordi, al punto che fatico a stargli dietro con carta e penna.

Domanda: Come fu arrestato, in quell’agosto del 1939?
Risposta: Quel giorno avevo un appuntamento con un ragazzo ed ero uscito per vederlo. Lui però non venne, e allora andai a cercarlo io al biliardo. Siccome non era neanche lì me ne andai, ma quando arrivo a casa, paf, davanti trovo la polizia che mi aspetta. Avevano già arrestato R., un mio compaesano, e tutte le famiglie dicevano che era uno scandalo, uno scandalo!
Fecero il giudizio a porte chiuse, e mi domandarono: “Voi cosa facevate in quel posto quel dato giorno?” e cose simili. Io risposi: “Ma voi che diritto avete di fucilarmi in questo modo?”, e loro mi dissero: “No, qui noi non fuciliamo nessuno”.
“Non fuciliamo”: cinque anni di confino mi diedero! E aggiunsero che per la frase che avevo detto me ne avrebbero potuto dare altri due per oltraggio alla corte…

D: Nel rapporto di polizia che è conservato all’archivio di Stato di Roma il suo arresto è stato giustificato con questi argomenti:
“Il B. è dedito alla pederastia e costituisce un serio e pericoloso nocumento per la Società, per i frequenti scandali cui dà luogo. Per meglio riuscire negli adescamenti, soleva girovagare di giorno e di notte, con andatura e movenze femminee, truccato con rossetto ed abiti tali da richiamare l’attenzione dei passanti che, in massima parte, restavano nauseati”.
R: Ma è tutto falso, non è vero niente, mamma mia che bugie!
Io lavoravo in negozio, ci sono entrato ad otto anni, figuriamoci se mi potevo truccare e andare in giro vestito così.
Già la polizia ti arrestava se sapeva che eri un femmenella; figuriamoci cosa sarebbe successo se io fossi andato in giro vestito da donna.
L’ho fatto durante il Carnevale, sì, ma evidentemente la questura questo non l’ha detto, per far credere che io fossi chissà cosa…

D: Aveva già avuto problemi con la polizia prima dell’arresto?
R: Veramente a me non hanno mai fatto niente, e non mi hanno mai picchiato: mi mandarono al confino, ed al ritorno mi sono fatto due anni di ammonizione (che è come gli arresti domiciliari, in pratica) e poi ho passato dodici anni a Roma.
Adesso sono tornato qua, ed ho un negozio.


D: Com’era la vita al confino?
R: Ci hanno portati lì alle Tremiti, ed ognuno cercava di fare la sua attività: chi sapeva fare il calzolaio faceva il calzolaio, chi sapeva fare il sarto faceva il sarto eccetera. Io facevo il lavoro più bello: facevo “la sarta” per i carabinieri, e me li trovavo tutte le mattine alle sei mezzi spogliati…
Ce ne era uno che si chiamava V.: quanto era bello! Dopo quarant’anni me lo ricordo ancora…
Poi cercavamo di vivere bene, come si poteva. Ridevamo, facevamo teatro, facevamo delle cose… Che so, arrivava un telegramma che annunciava che stava per arrivare un femmenella nuovo, e allora davamo una lira ciascuno per preparare una tavolata.
C’erano due cugini di Paternò, uno scultore e l’altro pittore, che si preoccupavano di tutto e ci dicevano di andare a raccogliere fiori, preparare le decorazioni eccetera.
In fondo… si stava meglio là che qua: ai tempi miei se eri femmenella non potevi manco uscire fuori di casa: non ti potevi far notare, sennò la questura ti arrestava.
Invece al confino c’era, che so, l’onomastico di uno di noi e si festeggiava, arrivava uno nuovo e si festeggiava… serviva anche a passare le giornate.
Facevamo pure teatro, e lì naturalmente potevamo vestirci da donna senza che nessuno dicesse niente… Ci furono femmenelle che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!

D: Andavate tutti d’accordo? In una supplica al ministero il suo concittadino R…. si lamenta di essere stato mescolato con confinati omosessuali catanesi, a suo dire rissosi e poco raccomandabili, e disperatamente chiede un trasferimento.
R: Io stavo bene con loro, con i catanesi: sono rimasto amico per molto tempo. (Poi un poco sono morti, un poco per la guerra li ho persi di vista…).
Quando siamo tornati dall’isola ha continuato ad esserci una catena di corrispondenze, una cerchia di amici.
Solo una volta sono stato in cella, perché ruppi la capa a un altro, che insultava l’amico mio Mimì.

D: Nascevano storie d’amore fra i confinati?
R: E come no! Là ci sono state perfino le coltellate fra siciliani, per passione!
C’era uno che era soprannominato ‘a caprara, che era un “pederasta” attivo, e a Catania faceva marchette: quando fecero la retata i femmenelli denunciarono anche lui perché dissero: “come, a noi sì e a lui no?”
Lo sorpresero, ebbero le prove e lo mandarono al confino.
I femminelli che se lo erano “fatto” quando erano a Catania, là lo cercavano come il pane, perché loro dicevano che teneva un… [fa un gesto allargando le mani e ride].
Ma poi il problema è che questo teneva un altro… e non vi dico cosa successe, finirono pure in cella… non vi dico, il finimondo.

D: Quali erano le vostre condizioni economiche?
R: La mazzetta che ci passava lo Stato, cinque lire al giorno, non era sufficiente: ci dovevi mangiare, comprare il sapone, tutto. Si rimediava come poteva, però qualcuno che era più povero era costretto a fare marchette con chi era più ricco.
Le famiglie ci mandavano pacchi, del mangiare, dei vestiti, ed io avevo un fratello mio che usciva pazzo per me: mi ha sempre voluto bene, e per tutti gli otto mesi che sono stato al confino non si è sentito bene al cuore.
Poi è arrivata la guerra, e allora ci hanno rimandati tutti a casa con due anni di ammonizione.

D: A S. Domino Tremiti c’erano anche prigionieri di altro genere, o lì venivano confinati solo gli omosessuali?
R: No, c’eravamo solo noi politici: i prigionieri comuni stavano all’isola di fronte.
C’erano anche dei prigionieri che erano veramente politici, e loro qualche volta scendevano giù da noi per fare qualche marchetta.
I veri politici tenevano tutti quanti case fittate (mentre noi non potevamo), e loro stessi molte volte chiedevano permesso al direttore per venire da noi per fare due risate insieme.

D: Che rapporti c’erano con le guardie sull’isola?
R: Eh… Pure i fascisti e i carabinieri si volevano togliere lo sfizio di venire con noi, in un modo o nell’altro…

D: E non correvano rischi, così facendo?
R: Rischiare? Ma tutti si rischiava, perché non era certo permesso che noi andassimo a fare marchette con loro!

D: Come fu il suo ritorno a casa?
R: Quando sono tornato mi hanno voluto tutti bene: anche prima di questa cosa me ne volevano. Io sono nato qua, tutti sapevano di me… Per vent’anni ho tenuto un negozio, qui dietro.
E poi… tornato a casa mi sono “fatto” tutto lo sbarco Alleato [ride] e me ne sono andato a Roma con un ufficiale americano. Lui aveva detto che voleva portarmi con sé anche più a nord, ma poi ha trovato un altro ragazzo, figlio d’un carabiniere, e sono dovuto fuggire dall’albergo, in fretta e di notte.

D: Dopo il suo ritorno non ebbe più fastidi?
R: Come no? Io l’avvocato mio lo feci correre, perché quando ci fu lo scandalo dei “balletti verdi” nel 1960, un femmenella per paura denunciò me ed altre quattordici persone, dicendo che pure noi facevamo i balletti verdi, che ci vestivamo con i veli, facevamo la danza del ventre…
Non era vero niente: si trattava solo di un questore che voleva fare carriera mostrando quanto era bravo lui a scoprire queste cose.
Comunque, il mio avvocato confermò la cosa ed il mio nome finì su tutti i giornali. Per mia fortuna il giorno del fatto stavo ammalato a letto ed ero stato visitato da un dottore che testimoniò in mio favore: io querelai tutti per diffamazione e vinsi la causa…
Ah se lo feci correre quella volta il mio avvocato!

D: Ci furono altri strascichi, dopo la guerra?
R: Sì, so che S. fece fare una grande inchiesta perché diceva: “se voi mi avete mandato là come confinato politico” (e questo lo facevano per nascondere il fatto che in Italia c’erano così tanti “pederasti”), “allora voglio la pensione come confinato politico”.
Fece dei reclami, perché voleva che gli fosse riconosciuto il tempo perduto al confino. Alla fine però ha perso, perché avevano messo un articolo, un codicillo che serviva a far capire che noi in realtà eravamo “pederasti”. Così nessuno ha mai avuto niente dallo Stato.
Però è incredibile, non ci si può credere, che quante grida di giustizia ho rivolto io al Signore, tante lui me ne ha esaudite.
Sette persone mi hanno fatto del male, e sono tutte morte: l’ultimo, il prefetto B., morette int’ ‘e scale, con un attacco cardiaco. Ed io sono ancora qui!
Tutte le mie grida di giustizia sono state esaudite…

D: Un’ultima domanda: perché, se lei sa di aver subito un’ingiustizia, era così restio a concedermi un’intervista, e fare in modo che la gente sapesse che queste ingiustizie sono esistite?
R: È che… dopo quarant’anni non ti viene più la voglia di parlare di queste cose.
Cosa vuoi, figlio mio, ti viene da ricordare i processi, i dolori…
Perché lì ci sono stati grossi scandali, famiglie che hanno avuto un disonore grandissimo. Neanche a un gran delinquente avrebbero dato la punizione che hanno dato a noi.
Ci mandarono tutti al confino, ma per che cosa? Non avevamo fatto niente, c’erano solo segnalazioni della polizia e nient’altro. Furono scandali, fu un enorme dolore per la famiglia, perché a quei tempi era una grandissima vergogna avere un figlio così.
E quando ritornammo a casa, dopo due anni di ammonizione, abbiamo chiesto tutti la riabilitazione allo Stato.
Nessuno è riuscito ad ottenerla.

Fonte: giovannidellorto.com

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